Viaggio alla scoperta di una generazione di tennisti nata nel periodo sbagliato.

Tennis
di Paolo Sinacore

@bigshotpaul

All’ombra degli Dèi del tennis


Mentre Juan Martin Del Potro scoppiava in lacrime all’inizio di quello che – lui per primo – aveva intuito poter essere l’ultimo game della sua carriera, non stavamo semplicemente assistendo al romantico finale velato di tristezza (così tipicamente e meravigliosamente argentino) di un grande campione. Davanti ai nostri occhi, probabilmente anch’essi inumiditi, il primo capitolo di una generazione straordinaria di tennisti si chiudeva ufficialmente. La flebile speranza di rivederlo in campo in futuro è un’eventualità che lo stesso Juan Martin ci ha tenuto a far presente. Ma, come nel caso di Andy Murray, rientrato in buone condizioni (attualmente n° 85 delle classifiche mondiali) dopo il ritiro annunciato nel 2019, le possibilità di rivederlo ai fasti di un tempo sono pressoché nulle. Che sia difficile recuperare da determinati infortuni che si protraggono negli anni (all’anca per lo scozzese, a polsi e ginocchia per l’argentino) è un dato di fatto incontrovertibile. Si aggiunge a tutto ciò il più che normale ricambio generazionale, logico avvicendamento ai vertici che si verifica più o meno in ogni ambito sportivo, a maggior ragione in uno sport così logorante come il tennis. Nomi già affermati come Daniil Medvedev, Alexander Zverev, e Stefanos Tsitsipas, ai quali si aggregano Carlos Alcaraz e Jannik Sinner, fiori all’occhiello di un manipolo di junior che flirtano con la top 20 Atp: la scena mondiale è satura di talenti ancora “freschi”, e non c’è molto spazio per chi perde la ruota di questo gruppo.  
Eppure, non è sempre stato così.


Tra i primi a saperlo dovrebbero esserci proprio Del Potro e Murray, protagonisti di un gruppo che al comando ci è rimasto per sin troppo tempo; così tanto che abbiamo erroneamente pensato fosse normale. Ma di normale c’è stato veramente poco da quando nel 2003 un 21enne Roger Federer conquistava (guarda un po’…) a Wimbledon il primo dei suoi 20 titoli dello Slam. Quello che stava compiendo la scintillante stellina del tennis elvetico non era semplicemente il primo passo di una carriera che già all’epoca tutti sapevano sarebbe potuta diventare sfolgorante; non si stava limitando a dare una sferzata a quel ricambio che già prima di lui Hewitt, Safin e Roddick (contrapposti a leggende come Sampras, Agassi o Kuerten) avevano provato ad accelerare; quello che Federer non poteva sapere all’epoca, è che da quel trionfo d’inizio secolo sull’erba inglese sono state poste le basi per sotterrare in larga parte le ambizioni delle generazioni successive.

La prima obiezione a un’affermazione così tranchant si potrebbe ricavare sottolineando come i vari Nadal, Djokovic, Wawrinka, Murray e Del Potro siano tutti nati dal 1985 al 1988, e siano quindi effettivamente parte integrante di quelle generazioni. Il punto è che Roger Federer (classe 1981) ha travalicato i confini anagrafici che lo dovrebbero porre in una cerchia facente parte altri tennisti d’inizio secolo: la sola idea che Andy Roddick, nome che istintivamente leghiamo a un passato lontano, sia addirittura un anno più giovane dello svizzero, è esplicativo di come Federer sia riuscito a sconfessare tali logiche temporali. La sua unicità è stata anche il motore che ha alimentato la voglia dei campionissimi nati nella seconda metà degli anni ’80, un battaglione di fenomeni che ha vissuto l’inizio della loro carriera all’ombra del Re, col solo obiettivo di detronizzarlo. Questo concentrato di talento è stato l’ostacolo insormontabile che si è posto davanti a tutta quella schiera di grandi promesse nate nella prima metà degli anni ’90, loro sì costretti – come dicevamo prima – a riporre nel cassetto molti dei propri sogni di gloria. Mentre i Big Three imperversavano a ogni Atp 1000 e a qualsiasi torneo dello Slam a cavallo tra gli anni ’00 e ’10, a palesarsi furono altri loro coetanei come Del Potro e Murray, con apparizioni sparse di Cilic, Soderling o Tsonga, prima del magico triennio di Stanislav Wawrinka, vincitore di tre tornei dello Slam tra il 2014 e il 2016.

Per vedere un tennista del 1990 in finale di un Atp 1000 bisogna arrivare al novembre del 2012, quando il 22enne polacco Jerzy Janowicz si arrende a David Ferrer nell’ultimo atto del BNP Paribas di Parigi. Alzi la mano chi ricorda nitidamente questa meteora, talentuoso prospetto in giovane età, eterno incompiuto tra i pro: una semifinale di Wimbledon nel 2012, top 15-20 nel ranking per qualche mese nel 2013, e poi più nulla, fino allo status attuale di inactive (ultimo ranking conosciuto: un mesto 527). Quella finale rappresenta, insomma, il più classico dei fuochi di paglia, e se si esclude qualche sporadica sortita di due eccellenti tennisti come Milos Raonic e Kei Nishikori (quest’ultimo nato il 29 dicembre del 1989), che si affacceranno a svariate finali senza mai riuscire a vincerle, bisogna attendere il 2017 per veder trionfare in un Master uno dei nati tra il 1990 e il 1995. Siamo per la precisione a Cincinnati, e il bulgaro Grigor Dimitrov (26 anni all’epoca) conquista il titolo superando il classe 1995 Nick Kyrgios. Rimane ad oggi l’unica finale raggiunta a quei livelli da questi atleti, che per tecnica e potenza espressa fanno senza dubbio parte dell'élite, ma che evidentemente non sono mai riusciti ad assottigliare il gap che li separa dai mostri sacri. A rendere maggiormente l’idea del parziale fallimento di questa generazione, basta tornare indietro di qualche settimana rispetto a quel torneo del 2017. Il 20enne Alexander Zverev, prima a Roma e poi a Montreal, si prende il lusso di portare a casa due tornei Atp 1000 battendo in finale (in entrambi i casi in due set) Djokovic e Federer. È quindi servito un classe 1997 per veder finalmente cadere gli dèi dall’Olimpo.
 

Da una parte i soliti noti, dall’altra giovanissimi in rampa di lancio: per i tennisti dei primi anni 90, una triste sensazione di accerchiamento, e la consapevolezza di avere a disposizione una breve finestra temporale per approfittarne. Gli unici a portarsi a casa un 1000 saranno Jack Sock (Parigi 2018), Dominic Thiem (Indian Wells 2019) e a sorpresa Cameron Norrie (Indian Wells 2021), ma per il resto la torta, come si intuiva da tempo, se la stanno spartendo i vecchietti terribili e i nati dal 1996 in poi, ormai nel pieno della loro maturità. Il riepilogo dei tornei dello Slam spiega ancora meglio questo immobilismo ad alta quota: dall’edizione 2005 del Roland Garros i Big Three hanno conquistato 57 slam su 67, un numero che non lascia spazio né teoricamente a interpretazioni particolari, né in pratica agli altri rivali. Thiem è di fatto l’unico della generazione che stiamo analizzando a essersi tolto lo sfizio di metterne uno in bacheca, per la precisione lo US Open del 2020. Purtroppo però l’austriaco, che è sovente sembrato di gran lunga il più pronto tra i suoi coetanei, ha dovuto subire un lunghissimo stop per un infortunio al polso destro, e solo nelle ultime settimane ha fatto ritorno sui campi. Un calvario che lo ha fermato sul più bello, contraccolpo tutt’altro che banale per chi si appresta a compiere 29 anni. E si rientra quindi inevitabilmente nel circolo vizioso (o meglio virtuoso, dipende dai punti di vista) di campioni senza età come Rafael Nadal, che rientra dopo 6 mesi di inattività e vince gli Australian Open nel febbraio scorso, o di talenti ormai maturi come Medvedev, che si porta a casa gli US Open del 2021 schiantando in finale Djokovic. 

Al netto di quanto è stato detto e scritto, non va comunque dimenticato che stiamo parlando di ottimi tennisti, molti dei quali ancora oggi con buone possibilità di essere protagonisti. Se per Dominic Thiem c’è solo da attendere per capire se e quando tornerà ai livelli a cui ci aveva abituato fino al 2020, l’argentino Diego Schwartzman è invece oramai presenza fissa nella top 15 mondiale, e Nick Kyrgios, fresco vincitore agli Australian Open in doppio con Kokkinakis, pare essere tornato ai fasti del 2017. Chiaramente non è più il tempo di farsi troppe illusioni, con gli Alcaraz del caso che ben presto cominceranno a reclamare il trono che un tempo fu di Federer. Dopotutto sarà solo un’altra sfida proibitiva; l’ennesima, per chi è abituato a sgomitare per farsi spazio in mezzo agli dèi.


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Simone Colongo - Art Director