Analisi a posteriori di una carriera da incorniciare.

MotoGP
di Paolo Sinacore

@bigshotpaul

Cosa rimane del “Dottore”?


A prescindere da quale sia il loro sport d’appartenenza, e da quanto effettivamente riusciamo a cogliere da un punto di vista tecnico, è indiscutibile che esistano alcuni personaggi la cui grandezza travalica i confini della singola disciplina sportiva. Le loro gesta sono così fuori dal comune che risulta più semplice percepirne l’unicità. E quindi non servono ore di lezione di tennis per meravigliarsi dinnanzi a un rovescio di Federer, e non c’è bisogno di essere calciatori provetti per rimanere a bocca aperta quando Messi si infila in mezzo a un groviglio di difensori e ne esce palla al piede. In quei momenti le linee che delimitano i campi da tennis, di calcio o checchessia, svaniscono: il palco su cui si stanno esibendo i suddetti campioni è (molto banalmente) quello della vita di tutti i giorni, un istante spazio-temporale in cui la giocata risulta evidentemente difficile anche ai profani. Dal bambino di 8 anni alla nonna di 80, non c’è distinzione di età o sesso che impedisca al fortunato spettatore di apprezzare tali gesta. 



Chi vi scrive non è mai salito su una moto, eppure a ogni derapata di Valentino Rossi che allarga la gamba all’entrata della curva, un brivido mi sale (saliva, ahimè) lungo la schiena. In primis perché, essendo ignorante in materia, mi chiedo sempre come facciano a restare in sella durante certe peripezie motociclistiche; ma soprattutto perché Valentino rientra appieno nella schiera di fuoriclasse senza tempo menzionati in precedenza. L’ascesa che ha portato Rossi da talentuoso ragazzino impudente a icona universalmente riconosciuta del motociclismo è un crescendo vertiginoso che parte dall’estate del 1996. Il primo podio (3° in Austria) e la prima vittoria a Brno dopo appena due settimane, sono i primi vagiti di un giovanissimo fenomeno che non tarderà a sbocciare in tutta la sua grandezza. La progressione devastante nelle stagioni successive non lascia dubbi sul valore dell’atleta: dopo appena cinque anni, nel 2001, Rossi sarà già riuscito a mettere in bacheca un titolo mondiale per ognuna delle tre cilindrate. Il tutto a soli 22 anni.

Quello che potrebbe già essere un palmares da sogno per ogni motociclista (tre titoli mondiali ottenuti con due differenti case - Aprilia in 125 e 250, Honda in 500) è solo il trampolino di lancio verso la gloria. Il triennio con la Honda nella classe regina (nel frattempo diventata MotoGP) si chiude con un ruolino di 31 vittorie e 44 podi su 48 GP disputati, un dominio senza precedenti che porta inevitabilmente il totale dei mondiali vinti a cinque. Nello specifico, dall’ottobre 2001 al novembre 2003, il Dottore (nomignolo affibbiatogli dai suoi amici per la sua abilità nel mettere a punto la moto) finirà sul podio 35 volte su 36, con l’unica debacle a Brno nel 2002, quando è costretto al ritiro. La storia di questo sport cammina oramai lungo il binario tracciato dalla RC211V del numero 46, e in molti cominciano a chiedersi se non sia proprio il valore della moto messa a disposizione dalla Honda a fare la differenza. La straordinarietà di Rossi sta nel fatto che probabilmente, tra chi nutre sospetti, c’è anche lui; o per meglio dire, è indubbio che abbia ascoltato queste velate critiche, e a differenza di molti altri che le avrebbero ignorate, le ha fatte sue.


Si materializza così un improbabile approdo in una Yamaha in piena crisi di risultati, con gli occhi del mondo puntati addosso, quasi a voler essere morbosamente testimoni del primo scivolone di una carriera fin lì perfetta. È invece l’inizio del capitolo sportivo che risulterà determinante per l’ingresso di Valentino nel Gotha del motociclismo. La prima apparizione in sella alla YZR-M1 nell’aprile del 2004 è il più classico degli One Man Show. Sul circuito di Phakisa, Sud Africa, va in scena un duello d’altri tempi col rivale di sempre, quel Max Biaggi che da appena due stagioni è passato in Honda per dimostrare a sé stesso e al mondo di poter competere con Rossi per la vittoria del mondiale. La gara riassume alla perfezione quel senso di onnipotenza che emanava il centauro di Tavullia all’epoca: gli avversari (in questo caso il solo Biaggi) si sbattono, lo sorpassano, lo incalzano, ma alla fine inesorabilmente cedono. Il feeling con la Yamaha è già realtà, e il prosieguo della stagione non lascia spazio a dubbi, con quattro vittorie nelle prime sei gare a scavare il solco tra lui e i suoi più diretti concorrenti. Il primo biennio nella nuova scuderia non regala troppe novità, e ben presto si torna a monopolizzare la scena, con una serie di 25 GP in cui ottiene 23 podi a fronte di soli 2 ritiri. Il tassametro corre (siamo a sette mondiali messi in cascina), ma non è sufficiente a saziarne la fame di vittoria: la parentesi 2006/07, caratterizzata dai molti ritiri e dalle vittorie del compianto Nicky Hayden prima e di Casey Stoner poi, sono il propellente per il biennio successivo, coronato da quelli che saranno gli ultimi mondiali vinti da Rossi.

Nel 2009 Valentino ha 30 anni, nove titoli mondiali in bacheca, e l'universo motoristico sostanzialmente ai suoi piedi. Non esiste icona mondiale che regga minimamente il confronto, anche se nel mentre Michael Schumacher si avvicina al rientro in F1 (farà tre anni in Mercedes per chiudere la carriera) e Sebastien Loeb ha appena vinto sei campionati del mondo di rally consecutivi (arriverà a nove). L’irrefrenabile senso della sfida e la voglia di mettersi in gioco fanno sì che nel 2011 si materializzi l’approdo in Ducati. Per un campione abituato a superare ostacoli e ribaltare pronostici avversi, arriva la prima vera doccia fredda della carriera: due stagioni contrassegnate da tre podi e nessuna vittoria, prima di una celere ritirata in Yamaha. Una parentesi in cui gli inevitabili confronti con Stoner (campione nel 2007 proprio con la Ducati) aleggiano sulla testa di Rossi, e si aggiungono alla pressione che altri talenti emergenti esercitano su di lui. Tra questi c’è Marco Simoncelli, la cui triste e ben nota fine si consuma nel penultimo GP del 2011, evento che segna in maniera indelebile Valentino. È insomma un susseguirsi di accadimenti negativi (anche nefasti) che ne mina parzialmente l’immagine e la stabilità, e si unisce alla valanga ispanica che si abbatte sul motomondiale. Jorge Lorenzo e Marc Marquez si appropriano di forza della luce dei riflettori, e diventano i veri spauracchi di Rossi in quella che inevitabilmente rappresenta la parte finale della sua carriera.


Sembra tutto apparecchiato per un rapido declino, ma ancora una volta non c’è fine alla tenacia del nostro: il 2015 si apre con l’ennesimo capolavoro in Qatar, quando mette in fila le Ducati di Dovizioso e Iannone, dando vita all’ultima stagione da vero protagonista, in cui il feeling con la moto sembra tornato essere quello dei tempi migliori. Le premesse per vincere il decimo titolo ci sono tutte (12 podi e 4 vittorie nelle prime 12 gare), ma un finale zoppicante porta al famigerato scontro con Marquez in Malesia, che vanifica un’annata comunque leggendaria, in cui non fa mai peggio del 5° posto al traguardo. Jorge Lorenzo festeggia il suo terzo titolo tra le polemiche, con Rossi che arriva a definire Marquez “guardaspalle” del connazionale, alimentando un’acredine che si protrarrà fino ad oggi. Forse all’epoca Valentino già percepiva quella come l’ultima vera occasione per vincere, il canto del cigno che sognava da sempre. Non andò di certo come sperava andasse, ma non mollò di certo gli ormeggi: c’è stato ancora tempo per tre vittorie (l’ultima ad Assen, nel 2017), tre terzi posti consecutivi nel giugno del 2018, e un ultimo insperato podio (3°) in Andalusia nel 2020, alla veneranda età di 41 anni. L’ultima passerella, la stagione 2021, non è di certo leggendaria, con l’ottavo posto in Austria come miglior piazzamento. Ma non fa differenza: quello che c’era da scrivere sulla storia di questo sport era già stato scritto tempo prima.

Ciò non vuol dire che nel corso degli anni Rossi non si sia in qualche modo preparato a quello che sarebbe successo dopo. Ne è la prova tangibile il team VR46, nato nel 2014 in parallelo all’Academy, progetto lanciato per far crescere e valorizzare talenti italiani come Francesco Bagnaia, vincitore in Moto2 nel 2018. La sua passione travolgente per questo sport emerge anche qui, nelle sue esultanze nel paddock durante le gare di Moto3 per la vittoria di un suo pilota. Inoltre, in un ideale passaggio di consegne, nel 2021 la VR46 si è tolta lo sfizio di esordire anche in MotoGP con una Ducati guidata da Luca Marini, fratello di Rossi. Il Dottore non ha nemmeno rinunciato all’idea di essere protagonista in prima persona, sia chiaro. In aprile debutterà nel campionato GT World Challenge Europe 2022 a bordo della sua Audi R8, e poco importa che le ruote siano quattro e non due: con le sue sporadiche ma convincenti apparizioni nel Campionato del mondo di Rally, aveva già ampiamente dimostrato che il suo feeling coi motori non conosce limiti.

Comunque la si voglia vedere, pur tra mille bizzarrie e atteggiamenti istrionici, Valentino ha sempre evitato di cavalcare il suo personaggio al di fuori di un circuito, di esporre in pubblica piazza la sua sfera privata. Si è invece semplicemente limitato a mettere la moto al primo posto, onorando il suo passato e rispettando il suo talento, anche quando contrapposto alla freschezza di fenomeni assoluti come Marquez. Non ha indietreggiato di un centimetro, e anzi, se li è fatti addirittura nemici.

Chi lo ha conosciuto negli ultimi anni potrebbe aver rivisto in lui un pizzico di Abraham Simpson che agita le braccia al cielo, si lamenta, e non accetta il passare del tempo. Ma a differenza di nonno Simpson, questo vecchietto non ci ammorberebbe con storie sconclusionate. Gli basterebbe raccontare di quelle 115 volte che è finito sul gradino più alto del podio.  


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