Tanto da raccontare, dentro e fuori dal parquet: la passione per la vita della playmaker di Schio non conosce limiti.
Basket
di Simone Colongo
@sim_uan
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Giorgia Sottana, oltre la palla a spicchi c’è di più
Abituata a vivere lo sport sotto la luce dei riflettori sin da giovanissima, Giorgia ha avuto la forza e il merito di non fermarsi ad una sterile fama. Quest’icona del basket femminile italiano è riuscita a sfruttare la sua posizione di sportiva di prima fascia per mostrare al mondo un esempio positivo di caparbietà e impegno sociale.
Credits | Luca Taddeo
Una lunga e vincente carriera ti ha visto finora protagonista in Italia tra Reyer Venezia, Basket Treviso, Taranto Cras, e Famila Schio. Sei stata capitana della Nazionale, e all’estero hai detto la tua nelle file del Lattes Montpellier, del Fenerbahçe e della Flammes Carolo. A questo punto della carriera, chi è Giorgia Sottana? Quali momenti del tuo percorso ricordi con più orgoglio e soddisfazione?
Giorgia Sottana è, prima di tutto, una persona: spesso agli atleti non viene riconosciuto il fatto di essere anche “persone”. Per gli altri siamo solo atleti, siamo solo quello che facciamo. Invece io sono parecchio di più di quello che faccio nel mio sport - che poi è anche il mio lavoro. Questo non significa che io non ci metta tutta me stessa in quello che faccio, anzi. Il percorso di un atleta è fatto di tanti passi, tante soddisfazioni e altrettante delusioni, e spesso - io stessa - tendo a ricordare di più le sconfitte: il fatto è che quando vinci, quella gioia, dura giusto il tempo di provarla, poi se ne va e sei direttamente con gli occhi alla prossima sfida. Quando perdi invece, brucia. Brucia e senti quasi un dolore fisico, specie se perdi qualcosa d’importante. Sicuramente andare all’estero e riuscire a vincere in Turchia è stato un qualcosa di molto speciale per me, e quella coppa la ricordo ancora con tanto orgoglio: forse perché sono consapevole del lavoro che a livello personale mi ha portato li.
Capita spesso che a fronte di una partita combattuta punto a punto, sulla stampa nazionale vengano dati voti incongruenti alla squadra che ne è uscita sconfitta, sminuendo di fatto una buona prestazione corale che, magari, per un rocambolesco buzzer beater non è bastata a portare a casa i due punti. Scriveva Elizabeth Bishop, una delle poetesse più importanti del ventesimo secolo, che “L’arte di perdere non è difficile da imparare; così tante cose sembrano pervase dall’intenzione di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro”. Ovviamente le vittorie portano buonumore, affiliazione e ticketing, ma come si può educare il tifoso alla sconfitta riducendo la pressione del risultato finale sugli atleti, senza sfociare in infondati attacchi personali agli stessi? Secondo te in Italia c’è una sana cultura dello sport?
Guarda, la risposta è molto semplice: coloro che criticano le sconfitte e sfogano le loro ire contro gli atleti, forse non sono mai stati atleti. Perché quelli che lo sono stati, sanno perfettamente quello che si nasconde dietro ad una sconfitta. La solitudine, quel “dolore” che non è possibile spiegare, quel “senso di colpa” che ti fa stare in silenzio. La sconfitta ha un grande peso su di noi, perchè non è che durante la settimana ci facciamo il mazzo per provare a perdere. Investiamo tanto a livello fisico e a livello mentale, ma questo non viene capito perché “beh, tanto il tuo lavoro è fare un gioco”. Vero, verissimo, è un gioco, ma in quel gioco noi ci investiamo la gran parte del nostro tempo, esattamente come tutti gli altri lavori. Non lo so se in Italia c’è o meno una sana cultura, so solo che per criticare bisognerebbe prima provare quello che prova un’atleta dopo una sconfitta nella sua camera d’albergo, lontano da amici, famiglia, amori. Più che mancare la cultura dello sport, manca l’empatia. Il saper calarsi nella situazione.
È notizia recente la vittoria della battaglia sulla parità salariale da parte della Nazionale di calcio USA femminile. Molte oppressioni al giorno d’oggi sono più subdole e meno visibili. Basti pensare alla percezione di un bambino che fa uno sport considerato femminile per tradizione, come la ginnastica artistica. O di una bambina che si iscrive a scuola calcio. Credi che il basket possa rientrare in quella sfera in cui l’eteropatriarcato orienti inconsciamente la supremazia del movimento maschile su quello femminile? Ritieni che i tuoi colleghi maschi debbano prendere posizione al vostro fianco in maniera più decisa, magari emulando i colleghi NBA, che negli ultimi anni stanno cercando di spostare l’attenzione di media e sponsor sulla WNBA?
Credo che in Italia, culturalmente, ognuno guardi solo al proprio giardinetto. Perché esporsi per qualcosa di più grande ti espone anche a facili critiche. Non incolpo i miei colleghi maschi perché non fanno nulla per noi donne: fanno poco anche per loro stessi, perché anche nel maschile ci sarebbero tante cose che dovrebbero cambiare. Invece sembra che vada bene così. Onestamente io ho perso la fiducia in un basket italiano unito e tutto proiettato nella stessa direzione: quella di creare valore nel presente ma anche per costruire delle basi solide per le future generazioni. Personalmente credo che manchi la consapevolezza sull’importanza che giocatori e giocatrici hanno: senza di noi non esisterebbe nessun tipo di campionato. Ma imporsi per creare un cambiamento richiede un presupposto imprescindibile: unità e voglia di rendere le cose migliori di come le si hanno trovate.
Credits | Luca Taddeo
Lo sport è decisamente politica. O quantomeno le due cose sono strettamente connesse, in quanto (senza scomodare Aristotele e il pensiero filosofico occidentale) smuovono un numero smisurato di tifosi ed appassionati. Noi della Redazione di Off Topic crediamo fermamente che atleti con grande visibilità abbiano la responsabilità di farsi carico di un cambiamento in meglio della società, ergendosi a portavoce di messaggi sociali importanti. Ne sono un esempio LeBron James, schieratosi al fianco del movimento Black Lives Matter contro le discriminazioni razziali, o Lewis Hamilton, sceso in pista al GP del Qatar con un casco arcobaleno in supporto della comunità LGBTQI+ del paese arabo. A livello umano, sociale e sportivo, cosa sta dando Giorgia Sottana al basket e ai suoi appassionati? Cosa sta dando il basket a Giorgia Sottana?
Cosa sto dando io al basket e ai suoi appassionati? Questo dovresti chiederlo a loro. Io posso solo dirti che quello che ho da offrire è l’essere una persona autentica: quello che vedi e quello che dico, nei social o qui nelle interviste, è frutto di un pensiero mio e solo mio. A volte sbaglio, perché mi espongo senza pensare troppo alle conseguenze, ma penso che chiunque si approcci a me debba trovare me. Non una copia, non una maschera, non una costruzione. Preferisco sbagliare essendo me stessa, piuttosto che provare a mostrarmi per qualcuno che non sono e mai sarò. Non mi sono mai tirata indietro davanti a cause sociali e umane che ritenevo importanti, e della quale ero informata. Il basket a me ha sempre dato tanto, e sempre darà tanto, perché è il mio grande amore e il mio luogo sacro. Mi ha dato persone che hanno arricchito la mia vita, e reso una persona migliore. Mi ha insegnato disciplina e rispetto. Mi ha fatto comprendere come nella vita nessuno possa arrivare da nessuna parte senza altre personalità che ci completano. Il basket per me è una paragone con la vita, e lì trovo spesso le mie risposte.
Domanda ricorrente della rubrica “Penalties”: “Se non fossi una giocatrice di basket, sarei sicuramente...” Continua tu la frase. Parlaci dei tuoi hobby fuori dal parquet.
Se non fossi una giocatrice di basket sarei sicuramente una giramondo, innamorandomi di culture diverse dalle mie, ricercando storie dentro gli occhi di sconosciuti. Sarei una storyteller, e racconterei un giorno scrivendo, un giorno fotografando, un giorno facendo un video. Mi interesserebbero le persone, tanto. Questa sarebbe Giorgia se non giocasse a basket. Magari questa sarà Giorgia quando smetterà… vedremo.
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