Racconto di una pagina sportiva indelebile, eclatante, e tristemente simbolica del fraudolento monopolio di Lance Armstrong.

Ciclismo
di Paolo Sinacore

@bigshotpaul

La vergogna in giallo



È il 22 luglio del 2004. In tv va in onda un’anonima tappa del Tour de France, la terzultima di un’edizione che a grandi linee ha seguito il trito e ritrito canovaccio delle precedenti cinque. Un Re al comando, qualche sporadico rivale, e un plotone di sudditi.
Lance Armstrong sta prolungando senza particolari patemi il suo regno, arrivato a sei vittorie consecutive della Grand Boucle. Lo status di semplice ciclista è già il passato: Lance è una star di proporzioni mondiali, orgoglio americano da sfoggiare immancabilmente durante le torride estati di inizio secolo, mentre gigioneggia in maglia gialla dinnanzi ad avversari quasi mai all’altezza. Il nefasto ottobre del 2012 che svelerà al mondo i suoi tristi e sistematici sotterfugi è ancora lontano nel tempo; ma in fin dei conti, non così lontano dai nostri occhi. Armstrong sta infatti per mostrarsi in tutta la sua tracotante arroganza, e nulla sarà più come prima.


Credits | Getty Images

L’anonima tappa, dicevamo: partenza da Annemasse, arrivo a Lons-le-Saunier. L’occasione giusta per riposare in vista dell’ultimo eventuale (ma improbabile) ostacolo sulla strada del texano, la crono di Besançon. La favola di Thomas Voeckler, primo francese a conquistare la maglia gialla dopo tre anni, si spegne dopo dieci giorni sulle Alpi. A rovinargli la festa, il solito “Asso Pigliatutto” del gruppo. Per qualche tappa (La Mongie, Plateaue de Beille, e Villard-de-Lans) Ivan Basso riesce a seguire il ritmo incessante dell’americano fino al traguardo, ma la crono scalata dell’Alpe d’Huez scava il solco che lancia definitivamente Armstrong verso l’ennesimo trionfo. Il dominio continua a Le Grand–Bornard, e (ovviamente) si ripeterà anche nella già citata crono di Besançon. In mezzo a questa esplosione di arrivi in salita e prove contro il tempo, terreni fertili per lo show del texano, i 166 km che portano a Lons-le-Saunier rappresentano l’unica vera parentesi che un ciclista fuori classifica può sfruttare per mettersi in cascina una pur sempre prestigiosa vittoria al Tour.
O la va o la spacca, bisogna azzeccare la fuga giusta. Bastano pochi minuti: il gruppetto composto da Flecha, Joly, Fofonov, Garcia Acosta, Lotz e Mercado (poi vincitore al traguardo), prende il largo dopo appena 30 km, a testimonianza del quasi totale disinteresse del gruppone. Tra i ciclisti che provano a raggiungere gli uomini al comando, l’unico che riuscirà nell’intento sarà Filippo Simeoni, fuori dai giochi in classifica generale. Tutto secondo logica, tutto ampiamente prevedibile sin dalla partenza.

Mentre ascolto distrattamente le voci di Auro Bulbarelli e Davide Cassani (telecronisti dell’epoca, se non sbaglio) che prendono la linea accompagnati dall’immancabile sottofondo dell’elicottero che volteggia sul gruppo di testa, l’unico mio pensiero è che a breve arriverà puntuale il pisolino di metà pomeriggio, fedele compagno di viaggio durante la visione di una qualsiasi frazione interlocutoria di un Grande Giro. Prima che cali la palpebra, però, faccio in tempo a scorgere una maglia gialla in fondo al gruppo degli uomini in fuga. Sono sufficienti pochi secondi per riconoscere quell’inconfondibile sagoma. Altro che siesta, gli occhi sono spalancati: cosa ci fa il numero 1 del ciclismo mondiale in fondo a un manipolo di onesti atleti di seconda fascia, con oltre un minuto di vantaggio sul plotone?

“Qual buon vento ti porta qui in mezzo a noi plebei?” avrei chiesto umilmente al Re fossi stato tra i fuggitivi. La risposta è tutta nella scia di Simeoni. Quando infatti Filippo parte all’arrembaggio nel tentativo (poi andato a buon fine) di raggiungere i sei al comando, sulla sua ruota si appiccica proprio la tanto osannata maglia gialla. Quale pericolo si cela dietro a un’eventuale fuga dell’italiano, che in classifica generale si trova a decine di minuti dalle posizioni che contano? Chiaramente nessuno. Quello che sta andando in scena è l’ennesimo spettacolo in mondovisione del fenomeno USA… uno spettacolo diverso dal solito, però. Stavolta non si sta limitando a mettere in mostra la potenza devastante delle sue pedalate: per la prima volta Armstrong sta ostentando la sua avidità, il suo impareggiabile egocentrismo.


Credits | Getty Images

Le colpe di Simeoni non si celano di certo sulle strade del Tour, ma tra le carte di una denuncia rivolta al grande guru che alimenta da sempre i successi dell’americano, il dottor Michele Ferrari, col quale l’italiano ha avuto a che fare in passato (da cui l’assunzione di Epo, e la susseguente squalifica di 4 mesi nel 1999). Al corridore laziale, reo di aver messo i bastoni fra le ruote dell’oliato meccanismo basato sul doping e architettato dal dottore e Lance, non è concesso neanche godersi una singola giornata di gloria. Il fatto che lo stesso Armstrong si faccia carico di seguirlo, e che non lasci per esempio il lavoro sporco a uno dei suoi tanti gregari, è il chiaro segnale a chi è rimasto in gara di non provare nemmeno per sbaglio a mettersi di traverso nel suo costante cammino verso la gloria. Il messaggio arriva a destinazione forte e chiaro. Con il peloton giustamente impegnato a non far allontanare troppo la maglia gialla, Acosta chiede spiegazioni a Lance circa quello che sta accadendo. Il numero uno è laconico: “Se si stacca Simeoni, mi stacco anche io”. Tradotto: se l’italiano prova anche solo a restare nel gruppo di testa, i sei saranno costretti a trascinarsi l’insopportabile fardello della maglia gialla fino a quando il plotone colmerà il gap. Scacco matto del Re.

Lo stesso Garcia Acosta spiega a Simeoni quello che Filippo aveva capito prima di tutti, e cioè che l’unico modo per permettere ai sei compagni di fuga di arrivare al traguardo indisturbati, è quello di mollare e lasciarsi assorbire da chi gli sta dietro, portandosi appresso quell’intoccabile fardello giallo. Non c’è orgoglio che tenga: il corridore della Domina Vacanze è costretto a sacrificarsi e lasciarla vinta, come al solito, al texano. Che sia su strada o nelle aule di un tribunale, la sconfitta non è un’opzione prevista dal codice di Armstrong. Chiunque sia d’intralcio lungo il suo tragitto, non va risparmiato. Ma non è tutto, perché il virus di questa istintiva sudditanza psicologica verso il boss si diffonde ormai a macchia d’olio in tutto il gruppo. Sono passati 11 minuti da quando Mercado ha alzato le braccia al cielo regolando in volata Acosta, e all’arrivo del gruppo principale si consuma l’ultima insopportabile umiliazione ai danni di Simeoni: molti colleghi italiani (ad esempio Guerini, Pozzato, e uno scatenato Nardello) si scagliano contro il connazionale. La colpa è quella di aver stuzzicato l’Imperatore, costringendo i gregari del gruppo a uno sforzo extra, non previsto dallo script di una tappa come quella appena conclusa. Tra i più convinti detrattori anche un compagno di squadra blasonato come Mario Cipollini, contrario già in principio alla partecipazione di Filippo al Tour proprio in virtù del suo tribolato rapporto con Armstrong. Pare non esserci più uno spirito libero e indipendente fra i partecipanti di questa manifestazione: la coscienza comune è soggiogata al volere del grande despota in giallo.

Mi piace pensare a quel pomeriggio di luglio come l’inizio della fine di quell’Impero del male, il primo scricchiolio nel piano fino a quel momento perfetto orchestrato dal famelico dottor Ferrari. Nessuno sa ancora che quella rivoltante ingordigia sarà la pala con cui Armstrong scaverà la sua stessa fossa, e che saranno proprio i suoi più fedeli gregari di un tempo (Hincapie, Landis, Hamilton) a farlo cadere qualche anno più tardi. Agli occhi di chi ama il ciclismo, sul traguardo di Lons-le-Saunier apparve un solo uomo al comando: un grande e straordinario ribelle, Filippo Simeoni.
 

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Simone Colongo - Art Director