La dipartita del campionissimo brasiliano e l’imminente trionfo tricolore del Napoli, sono gli spunti che ci fanno aprire il libro dei ricordi; per ravvivare, con affetto e senza alcuna polemica, una rivalità tanto spettacolare quanto simbolica.

Calcio
di Paolo Sinacore

@bigshotpaul

Maradona è meglio ‘e Pelé?


Napoli, febbraio 2023. La squadra di casa, guidata per il secondo anno di fila da Luciano Spalletti, si appresta a vincere il terzo Scudetto della sua storia. L’aura d’imbattibilità che avvolge i partenopei in questa stagione sembra finalmente ripagare il presidente De Laurentis di tutti gli sforzi economici fatti nel corso degli ultimi 20 anni. Dalla serie C1, ai vani tentativi di fermare l’egemonia juventina: due decenni che stanno per portare al tanto agognato titolo, che manca agli azzurri dal 1990. Proprio quello Scudetto fu il canto del cigno nella mistica avventura che legò il Napoli a uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi: Diego Armando Maradona.


Non ci sarebbe neanche bisogno di fare tale premessa, visto che il nome di Diego è indissolubilmente legato al capoluogo campano; un binomio che va oltre il “semplice” – seppur straordinario – percorso sportivo del campione argentino, e si radica invece nella cultura partenopea fino a diventarne parte integrante. Spesso accostato, e non sempre ironicamente, alla figura del patrono cittadino San Gennaro, Maradona travalica qualsiasi discorso relativo al campo di gioco. Non sorprende quindi vedere un santuario dedicato al diez nel bel mezzo dei Quartieri Spagnoli, allestito a tempo di record attorno a un murales che lo rappresenta con la celeberrima maglia Buitoni di fine anni ’80; e non è certo stato uno shock veder cambiare la denominazione dello storico stadio San Paolo in Stadio Diego Armando Maradona nel giro di soli 9 giorni dalla morte del campione sudamericano, avvenuta il 25 novembre 2020. Sono proprio i tifosi napoletani, nella seconda metà degli anni ’80, a coniare un detto che in poche semplici parole racchiude la grandezza del loro idolo: Maradona è meglio ‘e Pelé.

Questo perché il formidabile attaccante brasiliano non aveva ancora trovato eguali capaci di entrare nell’immaginario collettivo per scalzarlo da un ipotetico trono della storia del calcio. Non ci sono Puskas, Di Stefano, Eusebio, Cruyff, Beckenbauer, o Best che tengano: il mito di Pelé, corroborato da numeri fantascientifici, non ha paragoni. O almeno, non li ha avuti fino a quegli anni, gli anni di Diego nel campionato di Serie A. È in quel periodo che si sviluppa una dicotomia che mai si era vista nel mondo calcistico; una faida quasi ideologica che non si limitava alle sole cifre, ma metteva a confronto due modi differenti di concepire lo sport più famoso al mondo. Da una parte l’immagine di un campione pulito, apparentemente dedito al 100% agli affari di campo, con pochi fronzoli per la testa; dall’altra genio e sregolatezza racchiusi in un pirotecnico mix pronto ad esplodere e a far parlare di sé, dentro e fuori il rettangolo di gioco.

Per la prima volta due figure così importanti appartenenti a due epoche differenti entrano in collisione senza, di fatto, essersi mai lontanamente sfiorati: Maradona giocherà infatti la sua prima stagione da professionista all’Argentinos Juniors nel 1976, appena un anno prima del ritiro di Pelé nelle file dei New York Cosmos. Che la narrativa legata al calcio potesse sfruttare le divergenze (spesso solo presunte) tra due giocatori non era cosa nuova, come ampiamente dimostrato dall’esasperante diatriba tutta italiana Mazzola – Rivera, che raggiunse l’apice ai mondiali del 1970 con l’infausta staffetta a tenere banco; di contro, Maradona e Pelé non erano invece  mai stati compagni di club o di nazionale, ma divennero attori protagonisti di una questione che superava i confini nazionali, rendendo secondaria anche la storica rivalità tra Brasile e Argentina.

Non era certo sufficiente sciorinare i clamorosi palmarès che si portavano appresso per stabilire un eventuale vincitore; che Pelé sia stato capace di vincere 3 mondiali (unico nella storia) col suo Brasile, o che sia riuscito a segnare oltre 750 gol tra club e Seleção, è più che altro materia per gli statistici. Così, mentre la Fifa utilizzava il brasiliano come perfetto uomo immagine da mostrare in copertina a sostegno di qualsiasi campagna di sensibilizzazione, Dieguito restava l’uomo del popolo, legato a valori di sinistra e capace di portare al trionfo una squadra “povera”, rimasta sempre nell’ombra dell’elite calcistica italiana. Chi resta all’interno di schemi prestabiliti e decide di regalare la propria carriera al Santos, e chi esce da quegli stessi schemi mettendosi in gioco in Europa, andando poi a vincere due Scudetti con il Napoli nel campionato all’epoca di gran lunga più competitivo.

In definitiva, una risposta alla domanda del titolo non c’è. Ma d’altronde il grande segreto di questa diatriba si cela nel fatto che a quasi due mesi dalla morte del brasiliano, ne discutiamo ancora oggi col sorriso sulle labbra. In fin dei conti c’è un aspetto – il più evidente – che legherà sempre questi due personaggi caratterialmente così differenti: parliamo, ovviamente, del loro abbacinante talento sui campi di calcio.


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