La sottile linea verde che unisce campo ed impegno sociale: la missione possibile di Morten Thorsby.

Calcio
di Redazione
@redazione.ots

Morten Thorsby, missione green


Nella Sampdoria fa ormai presenza fissa a centrocampo un 25enne norvegese che gioca con una maturità quasi anacronistica in relazione ai suoi coetanei. Eppure, informandosi sui suoi trascorsi, e ascoltando quello che ha da dire al di fuori del rettangolo di gioco, molti conti cominciano a tornare. Morten Thorsby è sì un ragazzo che macina chilometri su chilometri sui campi di serie A, ma è soprattutto un essere umano che abbraccia la vita rispettando l’ambiente che ci circonda e, in un certo senso, ci ospita. Se la domenica, in partita, il suo ruolo spicca maggiormente nella fase di distruzione del gioco avversario, negli altri giorni della settimana è invece uno spirito creativo che si dà da fare a prescindere dal suo talento di calciatore. Lo sport professionistico lo ha portato fino a Genova, e a Morten va benissimo così: c’è ancora tanto da scrivere in questo capitolo della vita.


Illustrazione di Simone Colongo

Raccontaci le difficoltà che hai trovato nel passaggio da una lega competitiva ma di seconda fascia come quella olandese, a un campionato come quello di Serie A, universalmente considerato come top tier league a livello europeo/mondiale.

Non definirei l’Eredivisie una Lega di seconda fascia: è riduttivo. Non voglio sminuire il valore di un campionato con tanti giocatori di talento e nel quale sono cresciuto. Certo però che l’impatto con la Serie A non è stato facile, perché è un torneo complicato: ho dovuto ambientarmi e aspettare che arrivasse il mio momento, ma a poco a poco mi sono preso quello che volevo. Ho fatto il mio esordio in una partita delicata per la Sampdoria: a Ferrara, con la SPAL. Mister Ranieri era arrivato da poco e per noi quella era una partita importante: avevamo pochi punti in classifica e dovevamo recuperare terreno. Abbiamo vinto all’ultimo minuto. Ho un bel ricordo di quella serata, perché da lì è partita un po’ tutta la mia avventura alla Sampdoria.

Ti sei guadagnato il posto da titolare nella Sampdoria, e continui a essere una pedina importante nella squadra anche dopo l’arrivo del nuovo allenatore, mister Giampaolo. Pur riconoscendo la tua evidente duttilità a centrocampo, ritieni ci siano degli aspetti (vista anche la giovane età) in cui tu possa migliorare?

Come dicevo, l’impatto non è stato semplice. Sembrava che non rientrassi nei piani del mister e mi era stato proposto di andare in Serie B per adattarmi meglio al calcio italiano. Ma io ero arrivato in Italia per giocare con la Sampdoria e ho tenuto duro. Ho lavorato sodo, e quando è arrivato Ranieri i miei sforzi sono stati premiati. Gli sono grato per la fiducia che ha riposto in me. Con Giampaolo siamo solo agli inizi: è un allenatore che ha delle richieste molto diverse rispetto a D’Aversa e Ranieri, ma sto cercando di apprendere la sua idea di calcio e di migliorarmi ancora. Prima di arrivare qui non ero ritenuto un giocatore forte sulle palle aeree; invece abbiamo scoperto che nei duelli di testa funzionavo bene e abbiamo iniziato a giocare su di me, sfruttando questo aspetto. Ecco, voglio migliorare anche nel gioco offensivo e nei passaggi come ho migliorato in quel fondamentale.

È da inizio campionato che alternate risultati sorprendenti a debacle sinceramente deludenti. È indubbio però che avete una rosa di giocatori di ottimo livello, che valgono sicuramente più della zona salvezza. Quali pensi siano le chiavi per trovare le energie in questo finale di stagione? La vicinanza del Venezia terzultimo (7 punti di distanza) vi mette pressione, o vi dà maggiori stimoli per mantenere e ampliare questo gap?

Questa stagione finora è stata più complicata della precedente. Abbiamo perso qualche partita di troppo e gli infortuni non ci hanno aiutato. Ci sono stati alti e bassi, compreso il cambio dell’allenatore, che richiede alla squadra un po’ di tempo per assorbire tutte le novità. Ma in squadra ci sono giocatori di valore e la rosa è forte: lo abbiamo dimostrato già all’andata con partite come la vittoria con il Verona, nel derby o il pari con l’Inter. Anche il 4-0 al Sassuolo o la vittoria con l’Empoli sono risultati importanti. Penso che la chiave di qui alla fine siano la continuità e la capacità di giocare al massimo tutte le partite. Può capitare di perdere, lo sappiamo, ma è fondamentale tirarsi subito su le maniche e tornare ad allenarsi duramente per la partita successiva.

Hai da poco dichiarato di trovarti benissimo alla Sampdoria. Dopo quasi 3 anni a Genova ti consideri sufficientemente integrato negli aspetti e nelle particolarità della cultura italiana? Ci sono alcune differenze che ritieni insormontabili per un ragazzo proveniente da un paese scandinavo come te?

A Genova non sto bene; sto benissimo. Potrà farvi sorridere, ma mi ricorda la Norvegia. Perché basta percorrere un sentiero in salita per vedere il mare direttamente dai monti. È una terra incantevole, mi piace molto vivere qui. Se ci sono differenze insormontabili? Macché, assolutamente no. Ogni Paese e ogni cultura ha le sue tradizioni, le sue peculiarità, ma nulla che sia troppo grande per essere insuperabile.

Parliamo dell’attenzione che hai dimostrato attorno alle tematiche ambientali: quando e come nasce l’idea di fondare l’associazione We Play Green? Di che cosa si tratta nello specifico?

Ho iniziato ad interessarmi all’ambiente quando ero ancora molto giovane. Spesso mi avanzava del tempo a casa, dopo le partite, e mi mettevo a studiare, cercando di informarmi sulle tematiche ambientali. Poi ad un certo punto mi sono accorto che non bastava più, che avrei potuto dare un mio importante contributo alla causa. Mi sono detto: perché non sfruttare il fatto di essere un calciatore, una persona nota, per diffondere il proprio messaggio? Ecco, quello è stato il primo passo. La comunità del calcio è il più grande popolo del pianeta: parliamo di quattro miliardi di persone almeno. Se tutti questi tifosi sentissero l’esigenza di fare la propria parte per la nostra Terra saremmo già a buon punto. We Play Green è nata con questo intento: è un’associazione che ha l’obiettivo di collegare tra loro calciatori, club e fan per rendere il nostro pianeta un luogo più sano e vivibile, aumentando in tutti i nomi coinvolti la consapevolezza di quello che possiamo fare per l’ambiente.

Quanto ha influenzato il tuo background culturale in questa tua passione? Ritieni sia più comune per un ragazzo norvegese considerare certe problematiche rispetto a uno italiano?

Mi hanno fatto molte volte questa domanda e francamente non so rispondere con certezza. Però io non credo sia una questione nazionale, ma piuttosto individuale. Ogni persona ha una sensibilità diversa e un differente senso di responsabilità. Quello che posso dire è che nei Paesi del Nord Europa, come la Norvegia, gli effetti dell’aumento delle temperature sono forse ancora più evidenti e questo invita tutti, anche i più dubbiosi, a rifletterci su.

In una puntata del podcast di Hector Bellerin hai raccontato di come in Norvegia ci sia un sistema che permette ai ragazzi di avvicinarsi a tanti sport sin da giovani. Credi che tale processo aiuti ad avere differenti punti di vista sviluppando così una maggiore sensibilità anche verso argomenti non prettamente legati al singolo sport d’appartenenza?

Sì, penso proprio di sì. Provare più sport significa fare più esperienze e quindi prendere più coscienza del mondo intorno a noi. Ci aiuta a guardarci intorno. Non so se ci rende sportivi migliori, ma sicuramente persone più complete.

Sei riuscito a coinvolgere compagni di squadra o di nazionale in questo tuo progetto? Pensi ci sia bisogno di una maggiore consapevolezza del problema anche tra i giocatori di alto livello, in modo che possano diffondere un messaggio positivo come stai già facendo te?

Sono in tanti i calciatori che mi hanno mostrato il loro interesse per questo progetto. Sia nello spogliatoio che fuori. Penso che dare l’esempio sia un passaggio chiave perché un messaggio funzioni. E l’esempio si dà nelle piccole cose, mostrando che un cambiamento non è necessariamente un pericolo o un problema, ma può essere invece un’opportunità. Il mondo si cambia un passetto alla volta. Racconto solo un piccolo episodio: quando sono arrivato a Bogliasco ero l’unico a guidare un’auto elettrica. Sembrava una stranezza. Quando gli altri compagni mi hanno chiesto come fosse, gli ho detto: “Provala, vedrai che non te ne pentirai”. Oggi nel piazzale del centro sportivo ci sono almeno altre sette o otto macchine elettriche.




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